Erano gli anni ‘90, Max Pezzali e gli 883 spopolavano tra i giovanissimi dell’epoca. Tante melodie ritmate, orecchiabili, hit che sono divenute storia della musica di quei tempi. Alcuni di noi probabilmente ricorderanno anche un pezzo in particolare: “Jolly Blue”, che ha dato il titolo anche all’omonimo film prodotto sempre da loro.
Ma perché partire esordendo con una canzone in un articolo che parla di videogame? Semplice, perché questo pezzo racconta di un mondo che ormai è estinto, un mondo che tanti nati negli anni ‘80 come me ricordano con nostalgia.
A quei tempi ero un ragazzino, e riavvolgendo il nastro della memoria riesco ancora a rivivere quei giorni spensierati. Bastava entrare in qualsiasi bar, e ad accogliere la clientela con la loro forma inconfondibile, i loro joystick, i pulsanti e gli schermi erano loro, i mitici cabinati. Accompagnati spesso dagli sgargianti e massicci flipper, che creavano una sorta di delirio psichedelico di luci e colori. Anche i miei nonni all’epoca avevano un bar, e il cabinato era una presenza costante, fissa, con cui sono cresciuto. Ricordo le domeniche, in cui il locale era chiuso, in cui utilizzavo la mitica chiave del potere, quella chiave che ti permetteva di aprire il vano dei gettoni e ottenere illimitati crediti gratis. Quei crediti che costavano dalle 200 alle 500 lire al colpo.
Ma il vero santuario era uno solo. Un luogo mistico, la Mecca di tutti noi “sbarbatelli”, dove ci saremmo fatti rinchiudere e avremmo volontariamente e deliberatamente gettato via la chiave. La sala giochi.
E per citare la canzone dell’inizio:
“Jolly Blue (la sala giochi)
Jolly Blue (piena di giochi) Jolly Blue (la sala giochi) che per noi era un non so cosa forse una seconda casa Jolly Blue (la sala giochi) Jolly Blue (piena di giochi) Jolly Blue (la sala giochi) si ma forse in fondo in fondo era tutto il nostro mondo”
Quasi ogni città che non fosse un paesino sperduto in mezzo al nulla aveva la sua Mecca. Zeppa di cabinati, flipper, calcio balilla, i primi simulatori di guida con i loro schermi enormi, i sedili, i volanti, le marce, a darti la sensazione di sfrecciare con un bolide sull’asfalto, e gli shooter simulator, dove si impugnava una pistola e ci si lanciava a capofitto in qualche missione facendo strage di nemici pixellati.
La sala giochi aveva anche un valore più profondo del semplice luogo dove si poteva accedere a dei videogiochi di spessore, ben fatti e graficamente superbi rispetto alle prime produzioni casalinghe dell’epoca. Si parla del sistema NES di Nintendo (quello che ha lanciato la leggenda di Super Mario), del primo Sega Master System (che al pari di Nintendo aveva la sua mascotte nel porcospino Sonic) e le loro dirette evoluzioni Super Nintendo e Sega Mega Drive. Era una novità epocale, si aveva la possibilità di giocare seduti comodamente sul divano, ma c’era sempre qualcosa che mancava. Al di là della grafica o della varietà stilistica dei titoli a disposizione, che sui primi dispositivi casalinghi non reggeva nemmeno lontanamente il confronto con le produzioni arcade, c’era un aspetto ancora più determinante e scollegato dalla qualità tecnica.
Guardando al contesto storico, culturale e tecnologico, bisogna tenere a mente che non esisteva internet, stavano nascendo i primissimi telefoni cellulari (che sembravano dei mattoni ingombranti e scomodi), i personal computer giravano su sistema MS-DOS, Windows stava muovendo i primi passi. Sembra quasi che si stia parlando del Giurassico, ma sono passati “solo” 30 anni.
A differenza di oggi, l’aggregazione era fisica, non esistevano i party su console, i vari Discord, Whatsapp, Facebook e via dicendo. Erano anni in cui se volevi vedere gli amici dovevi andare a citofonare sotto casa, o chiamare dalla cabina telefonica in casa e sperare che ci fossero. E la sala giochi era essenzialmente uno dei punti di ritrovo delle compagnie di ragazzi. Assumeva quindi anche un ruolo più sociale che non meramente di intrattenimento ed economico per chi le gestiva. Era occasione non solo di aggregazione e di conoscenze nuove, ma soprattutto di sfide reali, vere e proprie, all’ultimo sangue quasi. E a volte capitava, anzi quasi sempre, di dover aspettare il proprio turno, specie se il gioco in questione era già occupato da ragazzi più grandi, o se era talmente famoso e desiderato da avere la coda in attesa. Ma anche quell’attesa era parte della bellezza di poter poi finalmente mettere le mani su quel gioco. Il gesto quasi rituale di inserire la moneta, il gettone, la scritta che lampeggiava “INSERT COIN”, il suono di quel gettone che entrava e finalmente “PRESS START”.
Sono sensazioni ed emozioni che chi non le ha vissute difficilmente potrà comprendere appieno, specie le generazioni moderne. Generazioni che vedono nel cabinato un’alternativa fuori casa di ciò che le console e i PC di adesso danno comodamente, e che graficamente e a livello prestazionale sono nettamente superiori, a testimoniare l’enorme progresso tecnico raggiunto dalle case di produzione. Ciononostante, nessuna console potrà mai avere lo stesso fascino e trasmettere la stessa magia ed emozioni di quei luoghi e di quei cabinati, specie per la generazione che ha vissuto appieno quell’epoca, assistendo alla progressiva scomparsa di questi mitici santuari.
Senza dimenticare che le console e i titoli di adesso devono il loro successo e la loro longevità proprio ai loro genitori arcade. Saghe come “Street Fighter”, “Mortal Kombat” e “Tekken” hanno dato vita a sfide inimmaginabili tra i giovani utenti di quegli anni, lanciando franchise che a livello economico muovono il mercato dei picchiaduro e che valgono svariate centinaia di milioni di dollari. Un altro esempio è la saga di “Metal Slug”, sparatutto a scorrimento con gli iconici nemici parodia dei nazisti, che ha ricevuto diversi porting per le console casalinghe e che deve il suo successo e la sua fama proprio a quelle sale giochi che sono andate via via scomparendo. I modernissimi Dirt Rally hanno come capostipite il famigerato Sega Rally Championship e la sua struttura cabinata impostata come un’auto da corsa. Passando per Virtua Stryker, il più realisitco e moderno (per l’epoca) simulatore di calcio, in cui gli utenti più smaliziati e smanettoni potevano utilizzare con una combinazione di pulsanti una squadra di calcio formata dagli stessi programmatori del gioco, la SEGA F.C. E la lista e gli esempi di tutti questi capolavori del passato potrebbe continuare per anni.
In questi ultimi tempi, però, i cabinati stanno ritrovando una seconda giovinezza. Sono sempre più numerosi i gruppi di appassionati che recuperano questi dinosauri del gaming per collezionismo, o tentano di ricostruirli, ricreando non solo le strutture ma anche inserendo al loro interno i giochi di un’epoca che viene considerata “retrogaming”.
Chissà mai che un giorno non si possa assistere alla rinascita di questi luoghi, tornare a mettere le mani su quei cabinati leggendari, rimettersi nuovamente in coda, osservare ancora quella scritta lampeggiante “INSERT COIN”, far cadere la moneta, premere “START”, e affrontare di nuovo quelle avventure, tenendo il più lontano possibile la fatidica scritta “GAME OVER”.
E potete esserne certi. Se mi cercherete, mi troverete lì.
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